Dopo Vaia. Un reportage de «La Nuova Ecologia» sul nostro ultimo itinerario
A sei mesi dal ciclone che il 29 ottobre ha investito le foreste dolomitiche e carniche, sradicando 14 milioni di alberi, “La Nuova Ecologia” è tornata sulle Alpi orientali. Per raccontare gli effetti del clima che cambia, anche in montagna. E capire se ci stiamo attrezzando per il futuro. Un reportage di Fabio Dessì pubblicato sull’ultimo numero del mensile di Legambiente “La Nuova Ecologia” dedicato al decimo itinerario “Esiti del cambiamento climatico” del “Viaggio nella solitudine della politica”.
di Fabio Dessì
Eravamo abituati a guardarli in tv gli effetti dei cambiamenti climatici, a leggere di eventi estremi su giornali e siti internet: incendi giganteschi, uragani sempre più frequenti e violenti, piogge torrenziali. Accadevano, e continuano a farlo, dall’altra parte del mondo. Pensavamo che la faccenda non ci riguardasse in prima persona, che nella peggiore delle ipotesi se la sarebbero sbrigata i nostri nipoti. Illusioni spazzate via lo scorso 29 ottobre dal ciclone mediterraneo “Vaia”, che ha raggiunto le Alpi orientali per accanirsi sulle foreste dolomitiche e carniche. In poche ore in Trentino, Sud Tirolo, Veneto, Friuli Venezia Giulia, e in piccola parte Lombardia, sono stati strappati dalla terra in cui affondavano le radici 14 milioni di alberi, scagliati verso i paesi di fondovalle, dentro fiumi e laghi. Sei mesi dopo attraversare quelle valli e quei passi è un colpo al cuore: i boschi si sono trasformati in radure costellate da ceppaie. E in ogni area colpita dalla furia di acqua e vento sembra di trovarsi davanti a un enorme “shangai”. Perché, visti da lontano, quelli ammassati l’uno sull’altro sui versanti sembrano migliaia di bastoncini. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta invece di abeti rossi piantati dopo la prima guerra mondiale. Con loro sono venuti giù anche pini neri e silvestri, faggi, tigli, aceri, ontani, larici, querce, frassini, sorbi, betulle. Servirà grande attenzione nel rimuovere le piante schiantate, dove è possibile farlo, e tanta pazienza. Ma la sfida più dura sarà convincere i più giovani a non ingrossare le fila di chi la montagna l’ha già abbandonata.
Un mondo nuovo
L’apocalisse è arrivata quando era buio. Lungo i 400 km che andando verso est separano la Valtellina dalla Val Saisera la terra ha cominciato a tremare dopo le 17.30 per smettere intorno alle 2.30. La giovane proprietaria del bar ristorante del Passo Redebus, in Trentino, racconta di boati così spaventosi da far pensare a un terremoto, di aver temuto di morire, che «quella notte nessuno è riuscito a dormire». Senza linea telefonica né internet soltanto la mattina successiva, quando un mondo nuovo le si è spalancato davanti col sorgere del sole, ha capito che cosa era successo. Lo stesso è accaduto in centinaia di altri luoghi. In poche ore, dopo due mesi senza piogge, su quelle zone sono caduti 700 millimetri d’acqua, l’equivalente della pioggia che cade a Roma in un intero anno. Fino a pochi giorni prima, a 2.000 metri, il termometro sfiorava i 30 gradi. È in un contesto reso così fragile da siccità e temperature anomale che il vento caldo proveniente da sud e l’aria fredda delle cime più alte si sono scontrati, scatenando una violenza inedita per le nostre latitudini. Dalla pianura raffiche di scirocco a una velocità media di 180 km/h, con punte di 217, hanno preso quota andandosi a infilare in valli via via più strette, dove intrappolate fra muri di pietra hanno cominciato a rimbalzare verso il basso, bersagliando corsi d’acqua, boschi e pendii. «Eventi di questa natura sono inediti, escono dalla norma. Ma come non vedere che la straordinarietà sta diventando normalità? Molto di ciò che chiamiamo emergenza è in realtà l’esito di fattori strutturali, l’esplicarsi di interessi globali». Michele Nardelli, trentino doc, è un agitatore culturale votato alla riflessione, al dialogo e alla diplomazia dal basso, da qualche tempo si è lanciato in un’impresa chiamata “Viaggio nella solitudine della politica”. Il mese scorso ha portato la sua “squadra” sulle Dolomiti e sulle Alpi Carniche, attraversando Cadore e Lagorai. La Nuova Ecologia era con loro. Negli spostamenti in auto, fra un appuntamento e l’altro, zone inspiegabilmente risparmiate dal vento si alternavano a paesaggi devastati. «Finora immaginavamo gli effetti dei cambiamenti climatici con un andamento lineare che poco a poco avrebbe eroso coste e ghiacciai, desertificato aree coltivabili, che avrebbe riguardato le generazioni a venire. E invece ci siamo immersi dentro».
L’intero reportage sulla rivista