L’alta Val di Susa e il turismo industriale

Parto dalla fine. Il secondo dei nostri itinerari (2/5 giugno 2017), dedicato in questo caso alle “terre alte alpine”, si conclude a Sauze di Cesana, comune occitano di poco più di duecento residenti nell’alta Val di Susa.

È difficile per il sindaco Maurizio Beria di Argentina togliersi di dosso l’immagine ingombrante del Sestriere che incombe ad una manciata di chilometri, emblema di un modello turistico industriale nato negli anni ’30 del secolo scorso ma che non ha mai cessato di proporsi nella sua insopportabile insostenibilità, comprese le strutture delle Olimpiadi invernali del 2006.

Quello è il modello dominante. E così dominante che lo sforzo di smarcarsi, di proporre un’idea diversa fondata sulla valorizzazione del territorio e della sua unicità che pure avvertiamo nelle parole del sindaco, fatica a trovare seguito ed ascolto, anche perché quel modello ancora nonostante tutto continua ad attrarre. E così fra elicotteri, gioco e champagne migliaia di persone nei mesi della neve (vera, sempre di meno; artificiale, sempre di più) arrivano in cima a queste montagne ad esibire denaro e pellicce, volgarità ed arroganza.

Capiamo quanto sia difficile uscire dal tunnel. Perché se è ovunque laborioso fare sistema territoriale, qui sembra un’impresa ancora più ardua. E che qualcuno provi a giocarla è dunque più che meritevole, se non altro per salvaguardare un’identità svanita nello spaesamento dei grandi resort e dei condomini del delirio fabbricato che Giovanni Agnelli (il capostipite) aveva immaginato nelle stazioni sciistiche alpine già cent’anni fa.

La stazione sciistica del Sestriere è una colata di cemento che, a confronto, le nostre Fassalaurina e Marilleva sembrano sciocchezze. Non so descrivere la sensazione di stupore (o di rabbia) che mi prende nel vedere dove può arrivare l’uomo nella sua ossessione di dominio verso la natura.

Conosco le devastazioni della guerra, quell’odore di marcio che ti rimaneva addosso nell’immediato dopoguerra bosniaco. Ho visto con i miei occhi la violenza dell’abbattimento di olivi millenari ad opera di giovanotti israeliani armati dalla testa ai piedi per recidere le radici (e la dignità) alle famiglie palestinesi che da sempre vivevano su quella terra. Vediamo ormai quotidianamente le carrette del mare gettare via fra l’indifferenza generale le speranze di vita che vi rimanevano aggrappate, facendo del Mediterraneo un immenso cimitero.

Ma qui, nelle montagne che hanno fatto la storia dell’alpinismo italiano, avverto un’analoga sensazione di smarrimento provata lungo le faglie dolorose della postmodernità. Penso alla sacralità di questi luoghi, violentati nella loro essenza da parte di chi ne aveva intravisto l’ennesima occasione di arricchimento. Il delirio che abbiamo chiamato progresso e del quale ancora non riusciamo a liberarci.

È un’eredità pesante. Dovremmo almeno risponderne… ma nessuno lo farà. In un giorno “fuori stagione”, quel che di animato si aggira fra questi totem deliranti probabilmente nemmeno ci fa caso, tanto il proprio immaginario è devastato. Un lavoro come un altro. E poi qui ci vengono quelli con i soldi, il segno del tempo è l’invidia, non dico la lotta di classe ma nemmeno la sensibilità verso il bello.

Mi viene da pensare che di fronte a una così pacchiana oscenità il turismo qui sia in crisi, ma Maurizio Dematteis che ci accompagna lungo questa valle ci dice che non è affatto così, che chi viene qui, da Milano o da Mosca che sia, ama questo parco giochi surreale.

Un’eredità difficile da scrollarsi di dosso perché almeno nell’immediato l’effetto sgocciolamento ricade anche sulle comunità circostanti: parlarne troppo male sarebbe come darsi la zappa sui piedi. Il meccanismo lo conosciamo bene anche nelle nostre Dolomiti. Richiederebbe un cambiamento di pensiero, che qui è forse più complicato che altrove.