Verso l’itinerario siciliano. Qualche domanda…

Palermo, maggio-giugno 2017

A Michele, Francesco, Giando, Giovanni A., Licia, Giovanni DB

Carissimi, più che carissime,
ecco qualche appunto sull’incontro con Michele del sei maggio, o meglio una prima, immediata, reazione.

Anzitutto. Siamo arrivati all’incontro, Cecilia ed io, con pochissime informazioni. Nella posizione di invitati, dopo due telefonate, con Giando e Giovanni A. Avevamo letto con interesse il sito e venivamo a vedere le carte in tavola. Leggendo il sito mi era rimasta una sensazione di indeterminazione, certo del tutto comprensibile per ciò che il sito voleva essere, per il suo ruolo attuale di “lancio del viaggio”. Mi aspettavo una riunione da un lato più operativa (provare a delineare le prime indicazione degli interlocutori cercati, dei luoghi da scoprire, certo non ancora una mappa) e dall’altro una occasione per comprendere meglio il senso di questa operazione, per comprendere con maggiore precisione lo specifico di una ricerca, di un cercare all’interno del vasto spettro del possibile aperto all’oltre il novecento. La presenza di Giando e Giovanni mi assicurava intanto di una familiarità per quella che è giusto intendere come una intera vita comune, comune non solo per il tempo lungo ed intenso passato assieme, ma specialmente per il risuonare interiore che ad ogni parola dell’uno fa sentire vibrare una corda interiore nell’altro. La riunione è stata un’altra cosa rispetto alle mie aspettative (cioè alla mia immaginazione anticipatrice). Probabilmente necessaria, ma che richiede tanti ulteriori passaggi intermedi.
Sono rimasto così con i miei dubbi: qual è l’obiettivo? un libro? un’inchiesta giornalistica? favorire l’emersione pubblica del mondo vivo ma nascosto e favorire la possibile nascita di una rete? ma non era questo l’obiettivo di Carta, e perché è fallito, perché riproporlo vent’anni dopo? E poi: il viaggio di Michele, e noi, convocati attraverso Francesco, cosa siamo chiamati ad essere? cosa ci si chiede (indicargli le possibili tappe? costruire i contatti? cosa significa “compagni di viaggio”)? Ed infine: cosa ognuno di noi è disposto a fare, una volta chiarita la richiesta?

Resto con queste domande ma intanto condivido i pensieri che mi sono venuti alla mente. Disordinatamente.

Sguardi. Si parlava della necessità di tenere presenti diversi sguardi, a partire dal diverso vedere per la differente appartenenza generazionale. E Michele sottolineava l’importanza che aveva per lui la presenza di “compagni di viaggio” appartenenti a generazioni significativamente più giovani della sua/nostra (parlo per me, quella socializzatasi nel ’68, e che a partire da quell’emersione radicale ha attraversato una infinità di esperienze eretiche nella sinistra politica e sociale). Mi preme sottolineare però che non basta questa diversità di sguardi (quella generazionale, per l’appunto). Ciò che mi ha colpito (ed ha colpito Cecilia) è stato la tonalità assolutamente maschile che il nostro parlare, ma anche il sito, aveva. Non è questione di numero di presenze femminili – anche – ma di qualità del discorso. E questo ha a che fare con il suo titolo: “Viaggio nella solitudine della politica”: “politica” è discorso maschile; il sommovimento storico che la ha posta in questione è lo stesso sommovimento storico che ha posto in questione l’ordine simbolico patriarcale. Il “non ancora” è invisibile ad uno sguardo (unicamente) maschile, esso si offre alla vista (se e quando appare) allo sguardo doppio per la differenza sessuale che segna la specie in quanto umana. Inevitabilmente parlo da maschio, ma è una mancanza che sento.

Stratificazione generazionale. Vi è un intervallo i cui punti estremi sono da un lato la mia generazione, segnata dalla politica come azione volta allo spazio comune a partire da una idealità (vale per la sinistra, come per i cattolici o la destra, anche estrema), cioè iscritta in un orizzonte di senso, dall’altro estremo l’universo attuale (propriamente post-politico perché post-moderno, ma non post-capitalistico) in cui la politica è una mera gestione/amministrazione di un potere senza alcun riferimento ad un orizzonte di senso (quindi non è politica in senso proprio), orizzonte che si è ritirato dall’universo sociale divenuto non solo anomico, ma propriamente muto, incapace di risuonare (Harmut Rosa). In questa nuova condizione la domanda di senso non è rivolta alla sfera collettiva della politica, ma si presenta “unicamente” come ricerca esistenziale individuale o di gruppi elettivi. La ricerca deve quindi indagare lo spazio all’interno di questo intervallo fra il “non più” della politica come orizzonte di senso consegnatoci dalla modernità (per molti di noi le mille anime della sinistra eretica) e il “non ancora” di una domanda di senso che potrebbe (ma non lo è ancora) trasformarsi in intenzionalità diretta ad un nuovo possibile ordinamento (legami strutturali) sociale. È chiaro che l’interesse maggiore è per il nuovo, per l’intorno più prossimo al secondo estremo dell’intervallo, e anche quando il viaggio si dovesse attardare su momenti del passato (in cui iscrivo necessariamente tutta questa mia lettera – non posso uscire dal mio orizzonte di vita) essi assumeranno un valore solo se, col loro apparire nella forma di un lampo che attualizza nel presente le attese delle generazioni che lo hanno preceduto, è capace di produrre uno spostamento nella rappresentazione di ciò che è, oggi.

Comunità. Ancora una precisazione con riferimento ad una parola che a molti di noi sta molto a cuore: comunità. Nel novecento, ma con una lunga storia alle spalle, la costituzione della comunità è politica, nel corpo delle organizzazioni politiche (leghe, sindacati, partiti) si costituisce una dimensione del noi che oltrepassa la immediatezza della fratellanza “naturale” (famiglia estesa, villaggio, …). Questa costituzione politica del noi ha da un lato radici lontane che richiamano il pensiero greco della polis, dall’altro la democrazia d’oltre atlantico, almeno come figura idealtipica, (Hannah Arendt). Nel centro la modernità della grande Europa come la ha riassunta in sé il novecento.
Nell’universo contemporaneo una ricerca di forme di comunanza, di dimensioni comunitarie, è ancora viva, anche se spesso non trova le parole per esser detta, ma oggi essa segue altre vie, alla ricerca delle quali occorre mettersi perché un viaggio abbia senso, sia cioè aperto all’evento di un incontro possibile e non alla ripetizione del racconto che ci facciamo da almeno venti anni.

Nuovo paradigma. L’esigenza di un nuovo paradigma emerge con forza a partire dagli anni ottanta, e ottiene un potente rilancio per la forza evocativa dei numeri: il passaggio di millennio. Esso ha alle spalle il dibattito sulla crisi di legittimazione che negli anni settanta segna tutta la riflessione teorico-politica europea. Lo richiamo non solo perché in quel dibattito assume un ruolo centrale la questione della perdita di senso del sottosistema politico (in una modalità nuova rispetto alle precedenti riflessioni di Weber e Schumpeter), ma perché quella crisi viene connessa, nel dibattito fra Habermas e Luhmann alla crisi di vitalità del mondo vitale (lebenswelt). La lettura che di tale difficile passaggio delle società moderne offre Habermas è quella della colonizzazione dei mondi vitali (luogo della produzione del senso) da parte della dimensione sistemica (con la sua razionalità strumentale). Come vedete affrontiamo questioni che hanno già una storia lunga ed una complessa stratificazione categoriale. Nel 1980, interpretando quel dibattito e la parallela questione della governabilità, Achille Ardigò propone in Italia, come possibile strategia di superamento, la ricostituzione dei canali di comunicazione fra ambito sistemico e mondi vitali. Richiamo questi passaggi ormai dimenticati perché – sebbene senza consapevolezza diffusa – essi costituiscono la struttura concettuale che fa da supporto al tentativo di superamento della crisi del welfare state attraverso l’inserimento in esso di un ruolo strutturale per il c.d. terzo settore: grazie all’agire di comunità-prossimità da parte di soggettività fortemente motivate, una nuova ricchezza di senso avrebbe dovuto “rianimare” gli asfittici sottosistemi mercantile e statuale.
Questo passaggio è alle spalle, e si interseca, con la ricerca di un nuovo paradigma che, a partire dalla metà degli anni ottanta, diviene sempre più pressante. Ognuno di noi ha attraversato questo passaggio, a partire dalla consapevolezza della natura unitaria della realtà come eco-sistema, che implica una etica di responsabilità sull’intero, la congiunzione di locale e globale, dalla consapevolezza della dimensione circolare e non più lineare dell’azione (come era nella forma strategica della politica novecentesca), dalla necessità di una coerenza fra fine dell’azione e forme di essa, dal primato della differenza sull’uguaglianza.[1]
La ricerca di un nuovo paradigma dentro cui iscrivere un nuovo pensiero politico[2] che vada oltre il paradigma novecentesco ha alle spalle questi due momenti, e con essi presuppone la politica come dimensione dell’agire dotata di senso. Tale ricerca è cioè ancora dentro un universo simbolico in cui la sfera del potere sociale e quella della produzione del senso non si sono radicalmente allontanate e separate.
In questo contesto culturale si iscrive l’esperienza di Carta, nata da una costola de il manifesto nel 1998, in un’epoca in cui le dorsali delle vie di comunicazione fra le molte realtà attive erano ancora integre. Il fallimento di questa esperienza, al di là delle singole soggettività che la hanno sostenuta, ci interroga, come ci interroga la perdita (anziché l’incremento) di radicalità su cui spesso si è adagiata la ricerca di un nuovo paradigma adeguato all’epoca della globalizzazione, dimentica delle domande che il secolo dell’imperialismo e delle rivoluzioni aveva posto.

Senso. Giando parlava di suoi giovani amici ritornati alla campagna, nelle Madonie. 35 anni, io 63. È un buon punto di partenza per interrogarsi su cosa cerchiamo. Giando diceva che quel ritorno alla campagna, al piccolo paese delle Madonie quasi svuotato da uno sviluppo urbano che ha desertificato il tessuto sociale-territoriale fatto di piccoli comuni, quel ritorno alla campagna non aveva solo una dimensione materiale (la ricerca di un reddito in un’epoca di lunga crisi economica), diceva di una significativa domanda di senso, essendo stato dissolto dallo sviluppo delle nostre società il senso già socialmente dato, fino alla cancellazione perfino della interrogazione e del suo cercarlo. Se vi sono luoghi e soggetti in cui una forma di vita che non segue gli stilemi urbani si associa ad una ricerca/domanda di senso, mi sembra che interrogare quei soggetti ed esplorare quei luoghi sia punto di interesse. Ancor più se i soggetti che la agiscono sono, per dato anagrafico, oltre l’orizzonte del novecento – cioè l’orizzonte della modernità (vado con l’accetta, senza fare differenza fra modernità in quanto tale e modernità capitalistica). Inserendo queste considerazioni Giando sorvolava sul fatto che senso e politica, pur interrelati, si collocano su piani diversi: il senso si riferisce ad un piano di discorso che costituisce il fondamento di quello si cui si articola il discorso politico e rimanda ad un tempo/luogo più originario.

Sicilia. Mi viene di pensare che la Sicilia è questo luogo più originario perché nella sua storia il nodo del potere (del potere come tale, non soltanto del potere di) ha trovato universi di discorso che lo avevano come oggetto nella sua nuda crudezza, che lo possedevano come significante senza il manto di illusioni – o inganni – delle sue manifestazioni “democratiche”. Per questo mi sembra che la domanda (o ricerca) di senso che nasce dal vuoto simbolico dell’immaginario sociale postmoderno, che non è rivolta alla Politica (ma potrebbe avere effetti politici), potrebbe più facilmente, sebbene paradossalmente, connettersi ai luoghi, fisici e simbolici, che in questa terra nei secoli sono emersi, piuttosto che connettersi ad un rivisitato pensiero politico.
Capisco di esprimere stereotipi arcinoti, anche se dimenticati, che mettono in fila, secondo una continuità che farebbe inorridire uno storico – ma potrei in proposito citare Benjamin – dall’universo delle tragedie greche all’indicibile ambivalente potenza della Grande Madre, dalla inafferrabilità del potere oltre la rappresentazione nel godimento mortifero del barocco, fino alla potenza mafiosa. Stereotipi culturali (i libri delle scuole elementari di mia sorella, di poco più grande di me, ancora fortemente regionali – Cerere, Aci e Galatea, Polifemo, Cola Pesce, il mandorlo in fiore, Empedocle che cade nell’Etna – fino al Gattopardo e Sciasca) certo, ma che hanno disegnato un immaginario dentro cui per una vita intera ho cercato di decifrare questa nostra terra e, attraverso essa, il mio essere nel mondo ed il difficile compito di stanare il potere nel suo insediamento sociale più arcaico. Questo potere irraggiungibile ed assoluto, che appare in controluce sotto ogni reale manifestazione politica (e non la sua farsesca scena istituzionale e mediatizzata) spinge ad una presa di distanza, oltre la quale reinventare il senso della propria vita.
Ed infatti, di fronte ad esso, ma che si sviluppa lungo altre direttrici, sta l’arcipelago di forme di socializzazione nate senza strutturarsi attorno ad esso, ma separandosi da esso, con un moto originario di sottrazione, costruendo i propri universi di senso attraverso il sincretismo di mitologie di diverse origini (il modo magico, la religiosità cattolica, l’immagine materna e protettiva della madonna, il sol dell’avvenire), primi fra tutti i Fasci siciliani, esperienze collettive anche enormi, fra le più grandi d’Europa, ma che non si sedimentano nella memoria collettiva, che non diventano mai una storia (anche perché annientate da una violenza del potere senza pari).
Quanto di questa dimensione comunitaria rinasce ogni volta anche in piccole esperienza?
E fra le due dimensioni (il nudo potere e l’emersione comunitaria) la realtà millenaria delle ibridazioni del Mediterraneo nel cui centro ha vissuto, e continua a vivere la Sicilia.

Annibale

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[1] Fra i vari passaggi che hanno impegnato parte della mia vita ricordo l’Alleanza per un mondo responsabile, plurale e solidale , forma di messa in rete di cittadinanza attiva globale promossa dalla Fondation Charles Léopold Mayer pour le progrès de l’Homme a partire dalla fine degli anni ottanta, e che nel 1993 ha elaborato una piattaforma basata su sette principi: di salvaguardia, d’umanità, di responsabilità, di moderazione, di prudenza, di diversità, di cittadinanza.
[2] La definizione di politica di don Milani (Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia) è troppo generica, e usata oggi, a differenza di quando la usava don Milani, non credo che ci aiuti.