Si è concluso da qualche giorno l’itinerario romano del
“Viaggio nella solitudine della politica”. Trovo finalmente il tempo per
scriverne qualche pagina di impressioni a caldo nel mio diario, in attesa di
predisporne il racconto per il blog www.zerosif.eu.
Diario che condivido con Antonio Colangelo, come ogni istante di questo tour
attraverso Roma.
Un itinerario intenso ma soprattutto sorprendente. Perché
dopo anni di frequentazione superficiale (ora lo capisco) di questa città
(eppure ci sono vissuto in un’altra vita per cinque anni) comincio a
comprenderne la complessità, la fatica del vivere, il caos calmo,
l’ingovernabilità. Ma anche le ineguagliabili prerogative che non sono solo la
storia e il patrimonio archeologico ma anche e paradossalmente ciò che nasce
nella sua stessa reale od apparente insostenibilità, dal fatto di essere molte
città in una, dall’umanità variopinta che vi alberga, dall’ordine improbabile
che la quotidianità e la gerarchia dei poteri induce. E dal fatto che malgrado
la solitudine c’è chi alza lo sguardo, si pone in ascolto, s’interroga e si
rimbocca le maniche.
E per prima cosa devo riconoscere un rovesciamento. Quando
immaginammo un itinerario romano di questo viaggio, il concetto di solitudine
fra i palazzi del potere poteva sembrare quasi un ossimoro, semmai
riconducibile a quella condizione di alienazione che il delirio del comando
induce. Ma la città o, meglio, le città sembrano pulsare di vita propria quasi
a prescindere dalla cornice che le accomuna e, ancora di più, dai luoghi del
potere temporale e spirituale che, come sappiamo, non sono affatto eterei.
E qui la solitudine ritorna ad essere di chi avverte il bisogno
della politica senza riuscire a rintracciarla o avvertendone la distanza. O,
ancora, nell’incapacità di interrogarsi sul senso di ciò che genericamente
chiamiamo “buone pratiche”, ma indotti a ridurre la politica ad un rapporto
subalterno – anche quando se ne rivendica l’antagonismo – con il potere.
E’ la sensazione che ho vissuto in due di queste “città nella
città”, molto diverse fra loro, la Garbatella e Torpignattara. La fiera
compostezza della prima, dove persino i centri sociali sembrano un ordinato per
quanto colorato ingrediente. La centrifuga melanconica di tutto il genere umano
della seconda, nel rassegnato equilibrio fra vecchi e nuovi abitanti, nella
moderna riconfigurazione gerarchica fra ‘ndrine, economie informali, attività
commerciali, agenzie immobiliari e tanto altro ancora, comprese le esperienze
di “street art” che andiamo a conoscere.
Ma pur nella crisi della politica che non risparmia nemmeno
la società civile scopriamo qui e là forme importanti di resistenza, dalle
esperienze formative rivolte ai giovani o ai migranti (pensiamo alle scuole
Penny Wirton di Eraldo Affinati) ai progetti di rigenerazione urbana come lo
Spin Time Labs nell’enorme palazzo che fu la sede nazionale dell’Inpdap, dalle
esperienze di agricoltura sociale come quella della Mistica che fa capo alla
comunità di Capodarco alle forme di promozione dei prodotti enogastronomici
regionali (DOL) a Centocelle.
A vederla da dentro, Roma evidenzia potenzialità
inimmaginabili, a cominciare dall’immenso patrimonio pubblico abbandonato come
opportunità di aggregazione e di progettualità sociale. E diversamente da quel
che si può cogliere dalle cronache politiche o giudiziarie, dalla trama di
interessi corporativi o particolari che pure ne segnano il tessuto sociale o
anche semplicemente nel sovrapporsi di contraddizioni a prima vista
irrisolvibili, il nostro pessimismo si attenua.
Potenzialità che la politica non riesce a cogliere
scambiandole per problemi. Penso alle strutture pubbliche dismesse nel tempo,
ad un patrimonio archeologico e storico/culturale immenso che viene valorizzato
solo in minima parte (e spesso banalizzandolo), ad un flusso turistico (e
religioso) che non verrebbe certamente meno se l’amministrazione lo sapesse
mettere a frutto a dovere responsabilizzandolo anche sul piano economico, allo
stesso patrimonio rurale o ambientale lasciato nell’incuria. E penso anche ad
un patrimonio umano ridotto a marginalità sociale, di cui non si conoscono le
prerogative in termini di intelligenze, saperi, competenze e che in una
dinamica coinvolgente potrebbe innescare processi virtuosi di integrazione e di
arricchimento fuori da ogni retorica multiculturale.
Nessuno per la verità me lo chiede, ma mi viene immediato
(deformazione politica!?) domandarmi come venirne a capo? Se esiste un bandolo
della matassa di una città complessa come Roma, questo credo sia identificabile
nelle Municipalità (i municipi come qui vengono chiamati), affinché ciascun
agglomerato urbano o, meglio, ognuna delle città possa trovare le energie per mettersi
in gioco nel ricostruire partecipazione, responsabilità e di conseguenza
coesione sociale.
Non è quello dell’autogoverno (quello che più o meno
impropriamente si definisce decentramento) un tema nuovo, posto in passato fin
troppo timidamente da una sinistra inguaribilmente centralista. E che rispetto
al quale l’amministrazione a 5 Stelle si è ancor più sbilanciata nella
direzione opposta, verso un accentramento dei poteri che teme la cessione di
competenze verso il basso. Un assetto di governo che diviene oltremodo
insostenibile.
Ne parliamo con Marta Bonafoni, una delle animatrici del
Campo progressista romano, in una delle nostre conversazioni. Esorto Marta –
che in molti vorrebbero al Campidoglio – ad immaginare una coraggiosa
devoluzione di poteri verso le municipalità laddove il Comune di Roma potrebbe
mantenere la titolarità di poteri di indirizzo generale, di coordinamento e di
rappresentanza. Ne verrebbe una moltiplicazione di idee, di responsabilità e di
pratiche di autogoverno, recuperando in questo modo una intelligenza diffusa
ora dispersa in mille rivoli o semplicemente sopita. Richiederebbe inoltre di
far interagire ambiti territoriali e istituzionali diversi, immaginando un
progressivo riequilibro (anche demografico) fra l’area metropolitana e l’ambito
regionale.
Perché stipare tre milioni di persone in un’unica città, qui
come altrove, è di per sé insostenibile. E’, quello del rapporto fra città e
aree rurali/montane, un tema ricorrente in questo nostro “viaggio”, un filo
conduttore che dall’“Università della montagna” di Edolo alla “Scuola del
ritorno” di Paraloup ci porta fino a Paolo Cognetti, recente vincitore del
Premio Strega con il suo “Le otto montagne”.
Nodo cruciale del nostro tempo e dell’insostenibilità di un
modello di sviluppo che mercifica ogni frammento delle nostre esistenze,
produce l’abbandono delle aree rurali e delle montagne con il conseguente
formarsi di megalopoli sempre più invivibili, per non parlare di quel che ne
viene sul piano dell’incuria e del degrado del territorio nei suoi processi di
impoverimento, di cambiamento climatico e di progressiva desertificazione.
Anche questo è un “cambio di paradigma”, investe la qualità
del vivere come il rapporto con il lavoro e la necessità di reddito (il nostro
primo incontro dell’itinerario romano è con l’esperienza di co-working al
centro Millepiani), una dimensione programmatica che chiama in causa il valore
relazionale, la gratuità dello scambio, la fruibilità del tempo ed altro
ancora. Anche in questo caso, un rovesciamento che richiede fantasia.
Trovo in lei attenzione, curiosità e molte sintonie. Cosa che
avviene peraltro in molti dei nostri incontri, un insieme di ricognizione delle
potenzialità umane e materiali, di confronto sul cambio di sguardo che si
richiede ai corpi intermedi per uscire da un torpore che non investe solo i
partiti. Tanto che incontriamo a più riprese alcuni dei nostri interlocutori,
come a ricercare un supplemento di conoscenza reciproca.
Intreccio curioso di sguardi che avviene grazie alle persone
che ci accompagnano in questo nostro itinerario, le quali su questa lunghezza
d’onda lo sono da tempo anche grazie a quel cenacolo di idee che la Scuola
politica Danilo Dolci ha rappresentato e rappresenta. E che pure di questo
“spazio di pensiero laterale” hanno bisogno per non finire fagocitati nel gorgo
della politica possibile.
Carlo, Mauro, Sandro, Stefano, Paola, Alice, Carla, Giorgio
e… Silvano. Silvano Falocco che dell’itinerario romano è l’ideatore e
l’anima. Stupisce come di queste svariate città dentro Roma Silvano conosca i
dettagli, vie, storie, personaggi, una sensibilità curiosa ed insieme ironica,
mentre non stupisce affatto come fra questa moltitudine di luoghi e persone
possa avvertire la nostra stessa solitudine politica.
Perché di sindaci che immaginavano che la città finisse in
viale Cristoforo Colombo – mi dice sorridendo Silvano – ce ne sono stati
diversi in questi anni, espressione di una politica che “sorvola” i territori,
Roma compresa. Anzi, può sembrare paradossale ma ho la sensazione che questa
città la si possa sorvolare ancor più di altre.
Quattro giorni non sono nulla, ma come in ogni viaggio si
delineano intese che ci permettono di sentirci dentro un luogo e un tempo. Così
può anche accadere che sette ore di trasmissione radiofonica notturna al
Corviale (nei pressi di un eco-mostro lungo un chilometro ed alto più di dieci
piani) da dove trasmette “Radio Impegno”, possano trascorrere in un lampo,
discorrendo del nostro “viaggio” come pretesto per parlare del nostro presente.
Così come nella conversazione a casa dello scrittore Eraldo Affinati nel
quartiere Ostiense, riconoscendoci – pur venendo da esperienze molto diverse –
fin nelle parole usate, come se i nostri percorsi di ricerca fossero gli
stessi.
O nell’incontro con gli amici della Scuola Danilo Dolci,
ormai un appuntamento annuale nel quale aggiornare le nostre linee di
osservazione dentro quest’infinita transizione fra il “non più” e il “non
ancora”. In questi anni con loro ho affrontato, volta per volta, temi che avevano
a che fare con la necessità di mettere alla prova i nostri paradigmi, fin tanto
che qualcuno di loro ha cominciato a chiamarmi “cavaliere nero” (https://youtu.be/qYY4HERByd8). Che a
ragion del vero un po’ contrasta con il ruolo di “pontiere” che ho cercato di
svolgere negli anni dentro una coalizione di governo nella quale l’intento
predominante era quello di demarcarsi pur di acquisire visibilità. Ma che
ancora una volta trovano confermato nel mio giudizio sulla movimentazione
politica di questi mesi, nella quale rivediamo una storia più volte riavvolta,
in assenza di quel cambio di paradigma che porta gli uni a chiamarsi “Sinistra
Italiana” e gli altri a definirsi “Democratici progressisti”. Fermi lì, incapaci
di andare oltre l’approccio keynesiano. Come negli Usa con Sanders e nel Regno
Unito con Corbyn. Nonostante la distanza, qui “gioco in casa”. Un po’ più
facile sentirsi meno soli.