Categoria: Editoriale

L’eredità olivettiana

Se c’è una città che parla più di altre dell’importanza di cambiare i paradigmi di riferimento questa è Ivrea. Qui ci attende il Sindaco Carlo Della Pepa che per prima cosa ci accompagna a visitare il Laboratorio – Museo Tecnologicamente, il racconto della vicenda industriale (e non solo) della Olivetti.

Perché questa storia rappresenta qualcosa di più di un’impresa, una sperimentazione insieme industriale, sociale, urbanistica e culturale che ha segnato la città e il territorio circostante. E, insieme, un pensiero laterale fra i più importanti del nostro Novecento. Una ricchezza che però fatica a diventare patrimonio collettivo.

Nel fare visita all’Archivio Storico Olivetti veniamo accolti da un nutrito gruppo di persone che della vicenda olivettiana sono stati insieme protagonisti e testimoni. Hanno visitato il blog del nostro viaggio e sono incuriositi da questo percorso che associa parole come solitudine e politica. La familiarità con cui ci accolgono ha forse qualcosa a che vedere con quell’abitare sul crinale della ricerca ma fors’anche con la condizione della solitudine.

Quella che vediamo attraverso le macchine, i manifesti, le riviste e le case editrici del progetto comunitario di Adriano Olivetti è qualcosa che in qualche modo ha a che fare anche con le nostre storie individuali. Le vecchie macchine da scrivere che vedevo da ragazzino nello studio del notaio Calliari dove lavorava mia zia Enrichetta, i primi rudimentali calcolatori meccanici, le “Lettera 22” con cui incidevamo le prime matrici di plastica con cui stampavamo volantini spesso illeggibili, le macchine elettriche degli anni ’80 con cui si preparavano le matrici elettroniche, i primi computer M20 con i floppy di cartoncino plastificato, la rivoluzione informatica degli anni successivi.

Che non si limitava a tradurre l’ingegno umano in macchine sempre più rivoluzionarie ma che si interrogava sulla condizione operaia, sul welfare e sull’abitare, sul tempo libero e sul sapere, fino a toccare la frontiera della proprietà e del potere. Quel disegno venne spezzato con la morte di Adriano Olivetti nel 1960, nel pieno di uno scontro con le grandi industrie nordamericane meno innovative ma finanziariamente e politicamente più forti.

Una vicenda, quella del pensiero olivettiano, che aveva a che fare con quel filone di ricerca rappresentato dall’azionismo politico e da “Giustizia e Libertà”, guardato con sospetto dalle principali vulgate politiche che, infatti, la condannarono alla marginalità. Sui muri dell’Archivio vediamo i manifesti degli incontri in azienda con Altiero Spinelli, Eugenio Montale, Eduardo De Filippo… negli scaffali le pubblicazioni delle Edizioni di Comunità che coraggiosamente riprendevano i pensieri di Theodor Adorno e di Karl Jaspers, di Norberto Bobbio e di Jacques Maritain, di Simone Weil e di Emile Durkheim. E successivamente le opere di Max Weber e di Hannah Arendt.

Qui ci sarebbe da scrivere un’altra storia politica, se solo una comunità sapesse pulsare con questa straordinaria eredità, per farne un luogo di elaborazione che va oltre i confini di una città, di una regione e di un paese. Invece è come se avessimo a che fare con un’eredità confinata. Ne parliamo a cena con il Sindaco di Ivrea. Chissà se ne verrà qualcosa di interessante…

A pensarci, Ivrea è a pochi di chilometri da Torino, ma le storie delle famiglie industriali di queste città andavano in direzioni radicalmente diverse, il profitto e la comunità. Anche nel rapporto fra città e territorio, fra città e montagna, le strade erano diverse. Per quella che prevalse, scempio e abbandono erano facce della stessa medaglia.

Paraloup, la scuola del ritorno

Nel nostro viaggio attraverso le terre alte alpine c’è anche un’altra montagna che ha subito l’effetto opposto, quello dell’abbandono. Migliaia di antichi borghi dai quali negli anni del boom economico le famiglie se ne sono andate, per la durezza del viverci e per l’attrazione verso una modernità plastificata.

Uno di questi lo andiamo a visitare. Paraloup è un borgo di poche case nel comune di Rittana, nell’omonima valle in provincia di Cuneo. E che grazie ad un progetto della Fondazione Nuto Revelli e dell’amministrazione comunale ma anche alla caparbietà di alcuni giovani che hanno fatto una scelta professionale e di vita che li ha portati sin qui, in questo luogo a millequattrocento metri sta rinascendo. Paraloup non è peraltro un luogo qualsiasi, se così si può dire, considerato il suo valore storico: nacque qui il primo nucleo della resistenza partigiana al nazifascismo.

La ricostruzione del borgo non ha però solo ragioni riconducibili alla memoria della resistenza. C’è un’altra memoria, quella della vita della montagna, che oggi sta prendendo corpo nella “Scuola del ritorno”. Senza alcuna retorica antimoderna, ma nell’immaginare un diverso rapporto con il lavoro, con la natura e, perché no?, con se stessi.

Di tutto questo parliamo con l’amico Marco Revelli (scrittore, saggista e figlio di Nuto Revelli), con il sindaco di Rittana Walter Cesana, con Luca, Sara e gli altri ragazzi che hanno dato vita alla Rete del ritorno.

La strada per arrivare al rifugio è malandata, ma qui ogni cosa diviene problematica e richiederebbe un surplus di attenzione da parte delle istituzioni che però sono prive di risorse e di autonomia, oppure lontane. Persino far arrivare la luce elettrica – ci raccontano – è stato problematico. Per le società per azioni che gestiscono i servizi contano i numeri, se non ci sono non c’è convenienza.

Il borgo è stato ricostruito con l’attenzione di lasciare ben visibili i segni della storia e anche dell’abbandono. A partire dai ruderi, infatti, le case hanno ripreso forma architettonica con un sapiente uso della pietra e del legno di castagno. E in una di queste case si svolge la nostra gradevole e intensa conversazione perché qui il cambio di paradigma di cui andiamo parlando appare in tutta la sua straordinaria potenzialità.

Mi colpisce l’emozione (quasi lo stupore) del Sindaco per il fatto stesso che veniamo da così lontano per ascoltare la loro voce e la loro esperienza, laddove la politica non ha occhi e sensibilità per la loro fatica. Figuriamoci pensieri.

È una bella domenica di sole e il terrazzo del rifugio è affollato di persone. Un’altra montagna è possibile e anche il pranzo che Luca ha preparato saltando fra il nostro incontro e la cucina risponde in pieno alla sensibilità per le cose che hanno valore. Così anche le scelte che potrebbero apparire impossibili diventano sostenibili.

L’alta Val di Susa e il turismo industriale

Parto dalla fine. Il secondo dei nostri itinerari (2/5 giugno 2017), dedicato in questo caso alle “terre alte alpine”, si conclude a Sauze di Cesana, comune occitano di poco più di duecento residenti nell’alta Val di Susa.

È difficile per il sindaco Maurizio Beria di Argentina togliersi di dosso l’immagine ingombrante del Sestriere che incombe ad una manciata di chilometri, emblema di un modello turistico industriale nato negli anni ’30 del secolo scorso ma che non ha mai cessato di proporsi nella sua insopportabile insostenibilità, comprese le strutture delle Olimpiadi invernali del 2006.

Quello è il modello dominante. E così dominante che lo sforzo di smarcarsi, di proporre un’idea diversa fondata sulla valorizzazione del territorio e della sua unicità che pure avvertiamo nelle parole del sindaco, fatica a trovare seguito ed ascolto, anche perché quel modello ancora nonostante tutto continua ad attrarre. E così fra elicotteri, gioco e champagne migliaia di persone nei mesi della neve (vera, sempre di meno; artificiale, sempre di più) arrivano in cima a queste montagne ad esibire denaro e pellicce, volgarità ed arroganza.

Capiamo quanto sia difficile uscire dal tunnel. Perché se è ovunque laborioso fare sistema territoriale, qui sembra un’impresa ancora più ardua. E che qualcuno provi a giocarla è dunque più che meritevole, se non altro per salvaguardare un’identità svanita nello spaesamento dei grandi resort e dei condomini del delirio fabbricato che Giovanni Agnelli (il capostipite) aveva immaginato nelle stazioni sciistiche alpine già cent’anni fa.

La stazione sciistica del Sestriere è una colata di cemento che, a confronto, le nostre Fassalaurina e Marilleva sembrano sciocchezze. Non so descrivere la sensazione di stupore (o di rabbia) che mi prende nel vedere dove può arrivare l’uomo nella sua ossessione di dominio verso la natura.

Conosco le devastazioni della guerra, quell’odore di marcio che ti rimaneva addosso nell’immediato dopoguerra bosniaco. Ho visto con i miei occhi la violenza dell’abbattimento di olivi millenari ad opera di giovanotti israeliani armati dalla testa ai piedi per recidere le radici (e la dignità) alle famiglie palestinesi che da sempre vivevano su quella terra. Vediamo ormai quotidianamente le carrette del mare gettare via fra l’indifferenza generale le speranze di vita che vi rimanevano aggrappate, facendo del Mediterraneo un immenso cimitero.

Ma qui, nelle montagne che hanno fatto la storia dell’alpinismo italiano, avverto un’analoga sensazione di smarrimento provata lungo le faglie dolorose della postmodernità. Penso alla sacralità di questi luoghi, violentati nella loro essenza da parte di chi ne aveva intravisto l’ennesima occasione di arricchimento. Il delirio che abbiamo chiamato progresso e del quale ancora non riusciamo a liberarci.

È un’eredità pesante. Dovremmo almeno risponderne… ma nessuno lo farà. In un giorno “fuori stagione”, quel che di animato si aggira fra questi totem deliranti probabilmente nemmeno ci fa caso, tanto il proprio immaginario è devastato. Un lavoro come un altro. E poi qui ci vengono quelli con i soldi, il segno del tempo è l’invidia, non dico la lotta di classe ma nemmeno la sensibilità verso il bello.

Mi viene da pensare che di fronte a una così pacchiana oscenità il turismo qui sia in crisi, ma Maurizio Dematteis che ci accompagna lungo questa valle ci dice che non è affatto così, che chi viene qui, da Milano o da Mosca che sia, ama questo parco giochi surreale.

Un’eredità difficile da scrollarsi di dosso perché almeno nell’immediato l’effetto sgocciolamento ricade anche sulle comunità circostanti: parlarne troppo male sarebbe come darsi la zappa sui piedi. Il meccanismo lo conosciamo bene anche nelle nostre Dolomiti. Richiederebbe un cambiamento di pensiero, che qui è forse più complicato che altrove.

Itinerario 2. Terre alte alpine. Fra abbandono e ritorno

Edolo, Tirano, Milano, Paraloup (Cn), Ivrea, Val di Susa – 2/3/4/5 giugno 2017

La Montagna da periferia a centro

Cambi di sguardo per comunità politiche

“Oggi le Alpi sono un
impasto di
innovazione
e tradizione, globale e locale, modernismo e nostalgia

nel cuore della vecchia Europa”. “Anche se si ferma alla disobbedienza e all’utopia senza costruire veri modelli di società, la voce arrabbiata della montagna filtra come goccia nella crepa del sistema, logorandolo con la spavalderia di chi vede il mondo dall’alto in giù e ha il privilegio di cogliere il pericolo per primo e urlarlo in legittima difesa, perché tutte le acque scendono dalla montagna.
Nessuna sale alla sorgente.”

Enrico Camanni, Alpi ribelli

Stiamo parlando del territorio alpino che va dalle Dolomiti alla Provenza. Una moltitudine di storie parallele che hanno accompagnato la vicenda dello sviluppo del nord ovest italiano lungo vallate ciascuna delle quali ha espresso vocazioni e attitudini che ne hanno segnato il territorio. Perché è il lavoro, nel bene e nel male, quello che ne ha scolpito l’ambiente come il temperamento delle persone, l’organizzazione del territorio e l’identità culturale e finanche religiosa, lo sviluppo dell’industria manifatturiera e le produzioni rurali, la presenza e l’abbandono… a segnare la Val Camonica e la Valtellina, Milano e il suo rapporto con la montagna, Paraloup e la provincia di Cuneo, la città di Ivrea e il Canavese e per finire la Val di Susa. Territori ricchi di storia, dove il rapporto con le città e la pianura ha subito condizionamenti in entrambe le direzioni. Ed oggi, conclusasi una storia fondata sui grandi insediamenti industriali, di nuovo in discussione. Le tematiche che saranno affrontate sono la macroregione europea e le terre alte, l’abbandono dei territori ma anche le scuole del ritorno, la valorizzazione delle antiche vocazioni e delle filiere.

Programma
2 giugno 2017
ore 10.30 – EDOLO, Università della Montagna
“Da periferia a centro. Le terre alte come luoghi del futuro”

Incontro
con Anna Giorgi, Università della Montagna
ore 15.30 – TIRANO, Cooperativa Il Gabbiano
“La montagna disincantata. Comunità resilienti, comunità innovative”
con
Aldo Bonomi e le persone impegnate nel welfare comunitario della Valtellina

3 giugno 2017
ore 12.00 – MILANO, Cascina Cuccagna, Via Ludovico Muratori
“La montagna e la città. Una storia di amore e odio”
Incontro con le realtà che si occupano delle tematiche relative al rapporto fra le città e la montagna

4 giugno 2017
ore 10.00 – PARALOUP
“I ritornanti. Storie di montagne capaci di ripensarsi”
Incontro con i sindaci e le comunità di valle organizzato e condotto da Marco Revelli

ore 17.30 – IVREA, Archivio Adriano Olivetti
“La Fabbrica lontana dalle fabbriche. Il rapporto tra luogo di produzione e territorio”
Incontro e dialogo promosso dal Sindaco di Ivrea, Carlo Della Pepa

ore 18.30 – IVREA
La grande invasione
Incontro e dialogo con il comitato organizzatore del festival cittadino dedicato all’arte e alla letteratura

5 giugno 2017
ore 10.00 – VAL DI SUSA
“Comunità che immaginano il proprio domani”

Incontri con i sindaci e le realtà del territorio condotti da Maurizio Dematteis

ore 14.30 visita al colle di Sestriere e ai suoi
modelli di sviluppo

Un tempo avevo una certa speranza.

Lettera di Zenone Sovilla

Carissimi, grazie della sollecitazione intellettuale di Zifr.
Vi scrivo due righe, sulla scia di quanto ho ascoltato nell’utile incontro fra esperienze diverse, a Belluno.
Vi confesso che vivo una certa disillusione alla quale tuttavia si accompagna un sentimento profondo di voler testardamente tentare di essere in qualche modo speranza (più che avere speranza…).
Un tempo avevo una certa speranza.
Anni Ottanta, militanza antimilitarista e nonviolenta: l’idea che in un futuro non troppo lontano gli eserciti e le guerre sarebbero scomparsi dalla storia dell’umanità. E invece, poco dopo, nuove guerre anche in Europa, nei Balcani.
Anni Ottanta, militanza ecologista, fondammo anche a Belluno una lista verde. L’idea che un territorio alpino, come qualcuno diceva nell’incontro di ieri, potesse farsi protagonista di una storia nuova, fuori dal paradigma dato.
Che una città e una provincia potessero tentare di sfidare la crisi (ecologica e umana) con scelte radicali, farsi laboratorio di un altro possibile (nella mobilità, nell’organizzazione del vivere comune, nella cura dei beni di tutti, nell’essere natura, nel modello di impresa).
Lo scorrere del tempo ha raccontato che evidentemente troppi sono i conflitti, le miopie e gli interessi in campo per poter disegnare lo spazio di questa sfida, anche in un microcosmo che riesce ancora a parlare guardandoti negli occhi.
Questo fallimento mi sembra conclamato almeno sul fronte della (necessaria) sintesi istituzionale che è largamente mancata (salvo e parzialmente eccezioni come l’istituzione del parco nazionale Dolomiti bellunesi).
Ci siamo ritrovati piuttosto a rincorrere emergenze più che a sperimentare sul terreno idee fuori del paradigma.
Lotte civili, finora vittoriose, per fermare i ricorrenti tentativi di prolungare l’autostrada verso l’Austria.
La battaglia popolare dell’acqua per frapporsi al dilagare del business (incentivato) delle miriadi di centrali che devasta l’ecosistema fluviale delle Dolomiti (insieme all’uso smodato a fini irrigui nelle vaste colture della pianura veneta).
La mobilitazione per fermare un processo agricolo che importa il modello delle monocolture intensive.
Come spesso accade in quest’epoca, si è costretti a giocare in difesa, molte energie sono costrette a canalizzarsi per fermare processi distruttivi, mentre potrebbero dispiegarsi più pienamente nella costruzione di un modello alternativo: il sistema di potere ha anche questo effetto perverso per difendere il suo paradigma e le sue élite.
Ciò nonostante, più o meno a macchia di leopardo e con le energie residue, molti cercano di pensare e di costruire un modello più sensato, coerente, dolce.
Qui mi piace osservare, forse contraddicendo in parte alcune opinioni ascoltate domenica, che si sono ottenuti risultati importanti grazie alla collaborazione e all’unione di diversità, anche nelle battaglie che ho menzionato.
Il comitato Acqua bene comune ha raccolto un’infinità di adesioni che hanno dato forza e favorito risultati storici, come lo stop alla diga di Chicco Testa in valle del Mis (torrente che unisce Trentino e Bellunese, bytheway).
La mobilitazione per la campagna Liberi dai veleni altrettanto, con un risultato straordinario quale la messa al bando dei pesticidi pericolosi già formalizzata da numerosi Comuni, capoluogo compreso.
Quest’ultima vicenda, in particolare, mostra che un’azione popolare può far breccia nelle istituzioni rappresentative, che c’è una dimensione di osmosi e di possibile conquista di spazi concreti di potere. In questo caso il potere di difendere la salute, l’ecosistema, il paesaggio, il senso di una comunità.
Le serate affollate di gente per presentare il regolamento e la campagna testimoniano di un tessuto sociale vivo.
Anche l’eterna querelle autostradale, peraltro, ha catalizzato sensibilità e collaborazioni.
Poi ci sono molte altre storie, di battaglie difensive ma anche di proposte di correttivi, (s)cambio di sguardo sulla realtà, promozione di conoscenza, immaginario e sperimentazione di modelli economici e sociali, per esempio in ambito agricolo e turistico.
Talvolta con e talaltra malgrado le istituzioni.
La mia impressione è che la provincia di Belluno presenti una rete interessante di sodalizi e persone che si spendono nel nome di un’idea di bene e benessere comune; capisco che relazionarsi fra realtà diverse può anche risultare complicato, ma è una fatica necessaria e inevitabile.
A me sembra che molti la stiano facendo molto volentieri, consapevoli del senso che ha questo faticoso esserci per sé e per gli altri, nel nome di idee giuste (ricordate l’ultimo biglietto di Alex?).
Potrebbero, queste visioni frammentarie, trovare una sintesi dentro un percorso locale di liberazione dal “paradigma”, un percorso dialogante, aperto verso i territori vicini?
Sono convinto che la risposta è sì.
E qui credo però che, così come su vari fronti è necessario fare breccia nelle istituzioni municipali, sia necessario immaginare una casa di tutti e con tutti all’interno della quale poter costruire gli strumenti anche legislativi per aiutare la spinta dal basso per un progressivo ri-orientarsi della convivenza, del contesto produttivo, dell’impegno per vivere in e con la montagna.
Provincia autonoma? Possiamo chiamarla anche federazione delle comunità dolomitiche, ciò che conta è comprendere a quale punto sia la consapevolezza dell’urgenza di trasferire potere (e risorse) dai livelli (purtroppo) gerarchicamente superiori (Regione e Stato) a quello territoriale per costruire un coordinamento di area vasta, una rete che catalizzi il contributo di tutti i territori verso una sintesi, in continuo divenire, orientata al benessere comune e diffuso.
Credo che le innumerevoli presenze di impegno civile cui ho accennato solo in parte poco fa siano una forza innovativa e carica di energie nelle nostre vallate: credo che un percorso di «autonomia» non possa prescindere dalla consapevolezza attiva di queste anime delle comunità bellunesi.
Considero l’autonomia innanzitutto un’assunzione di responsabilità, dunque un risultato della consapevolezza di sé e della propria forza.
Assunzione di responsabilità nei riguardi del territorio in cui si vive, delle zone vicine, del resto del mondo.
Empatia e solidarietà sono le fondamenta. Apertura, non chiusura.
Autonomia responsabile e solidale è per me un esercizio continuo che ti chiede alternativamente di alzare lo sguardo e di abbassarlo verso il tuo microcosmo con la forza della visione e della sensibilità che si alimentano. Una condizione di ascolto e di protagonismo.
Nella regione Dolomiti ho la netta impressione che pochi alzino veramente lo sguardo, almeno nel mondo istituzionale.
A Trento qualunque appello, impegno, contatto, riflessione cade nel vuoto di un mondo politico avvitato su se stesso, totalmente impermeabile a questa visione; fermo su un binario morto.
A Bolzano, un mondo a parte che probabilmente vorrebbe fare tutto da solo (il che rende più evidente la miopia e la pochezza della classe dirigente trentina quando ignora scientemente la questione dolomitica).
A Belluno probabilmente nelle istituzioni ci credono davvero in pochi (forse visto il contesto hanno ragione).
Perciò, al momento resta soprattutto l’essere speranza dei movimenti popolari, anche nella ricerca di un percorso di autonomia solidale, responsabile, innovativa. Mi conforta prendere atto che fra le persone, invece, l’idea di unire le nostre forze attraverso le vallate e le province è subito còlta con interesse e empatia. In fondo, è giusta…

Zenone