Categoria: 1. Regione Dolomiti, un bene complesso

Isola Catalunia

di Davide Buldrini

Vorrei dire un paio di cose riguardo ciò che sta accadendo in Spagna a causa del referendum (illegale) per l’indipendenza della Catalonia. Non ho nessuna intenzione di entrare nel merito della questione, ma vorrei fornire un’idea originale su come affrontare questo tipo di tensioni, chiamiamole così, neo-regionaliste. Lo voglio fare perché credo che per questioni come questa, che riguardano il territorio, l’identità e la prossimità del governo dei cittadini, sia necessario un approccio nuovo, lungimirante e laterale. Un approccio che, come direbbe Alex Langer (ma anche il mio amico Federico Zappini), non crei muri e scontri ma ponti e scambi.

Dalla Catalunia al Tirolo

di Michele Kettmajer

Federico Zappini, un amico da sempre attento alle dinamiche sociali delle comunità e dei suoi territori anche autonomi, mi ha girato questo post di Davide Buldrini. Buldrini ragiona da tempo su un Europa più federata magari con una nuova ricerca del significato di nazione e di confine e ricorda quali e quanti territori autonomi o alla ricerca di più autonomia ci sono nel vecchio continente. I referendum, cosi con il metodo attuale e in questa epoca ancora sconosciuta e senza nome non restituiscono il senso di una comunità, ne i sui talenti ne le sue capacità di gestire bene il territorio. Un territorio che è soprattutto un bene comune matrice dell’autonomia.

Belluno ha “vinto”, sarà referendum il 22 ottobre

di Zenone Sovilla

Un’autonomia nell’autonomia. È la rivendicazione storica dei bellunesi che ora trova un nuovo ancoraggio in un referendum provinciale che il 22 ottobre si affiancherà a quello della Regione Veneto. La consultazione popolare, indetta dalla Provincia di Belluno, ha avuto il via libera di Venezia e dunque consentirà ai cittadini dolomitici di rilanciare la richiesta che venga finalmente attuata (e ampliata) la norma di tre anni fa che prevede il trasferimento a Belluno di rilevanti competenze (dal turismo all’agricoltura, dall’energia ai rapporti transfrontalieri).

La Regione Dolomiti, la resistenza delle proprietà collettive

Con la questione del Terzo Statuto abbiamo in buona sostanza introdotto anche la cornice del primo dei nostri itinerari, dal Trentino all’Alto Friuli, attraverso l’Alto Adige/ Südtirol e la provincia di Belluno. Quella di una realtà sovraregionale che ancora non esiste ma che potrebbe iniziare – anche a statuto invariato – ad immaginarsi come tale.

Ciascuna di queste realtà ha buoni motivi per farlo. Chi si rende conto che l’autonomia da sola non basta e che ci sono dimensioni di scala che sono condizioni imprescindibili per fare qualità, chi è stato messo nel limbo da uno scasso istituzionale che ha fatto saltare le Province senza che vi fosse un’alternativa di autogoverno, chi per uscire da vecchi cortocircuiti etnico-nazionalistici, chi ancora perché non ha saputo immaginare l’autonomia come processo dinamico di assunzione di sempre nuove competenze e responsabilità.

Nel difficile rapporto che segna, oggi forse ancora più di ieri, le scelte politico-amministrative fra la montagna e la pianura, una delle forme di resistenza al centralismo sono stati i beni comuni e la loro gestione partecipata attraverso le proprietà collettive, gli usi civici, le regole.

La ricchezza dei territori montani sta nelle loro caratteristiche e nei loro straordinari patrimoni indisponibili (che li dovrebbe proteggere dall’alienazione, anche se non sempre è stato così), risorse che da sole potrebbero garantire favorevoli condizioni di autogoverno. Parlo dell’acqua, degli impianti idroelettrici, dei pascoli e delle attività collegate, del legno, delle risorse minerarie, del sottobosco, della bellezza e unicità dei territori montani, del turismo dolce che ne può venire, dei borghi abbandonati e così via.

Usare il condizionale è d’obbligo perché in realtà il vincolo della proprietà collettiva (ovvero di ciascuno) in passato è stato aggirato in nome del superiore interesse regionale o nazionale. E questo ci parla di normative che non sono date una volta per tutte, che richiedono cioè consapevolezza, conoscenza, lungimiranza, capacità di contrattuale fra poteri, in una parola una nuova classe dirigente capace di riconciliare i territori e la politica. Prendendosi in capo responsabilità oggi delegate.

Terre che, in assenza di reali forme di autogoverno, si spopolano con il conseguente impoverimento. Frustrando le spinte al ritorno che soprattutto fra i giovani laureati prendono corpo nella speranza di mettere a disposizione le loro conoscenze alla comunità di origine cercando ambiti meno precari di quelli offerti nelle aree metropolitane. Portatori di un importante valore aggiunto, rappresentano una sorta di “ultima chiamata” nell’invertire la tendenza all’esodo verso le città.

Confronto sul Terzo Statuto

Il nostro primo itinerario sulla rotta della “Regione Dolomiti” inizia non a caso con una conversazione a più voci sul tema cruciale del “Terzo Statuto di Autonomia”.

La ragione di fondo è che il cuore di una nuova fase della nostra vicenda autonomistica, dopo il riconoscimento della specialità (primo statuto) e l’esercizio di un’autonomia pressoché integrale (secondo statuto), dovrebbe essere incardinato sul progetto di un’Europa federale fondata su nuove realtà regionali.

In altre parole, una devoluzione di poteri verso l’alto e verso il basso da parte di Stati-nazione ormai obsoleti e fuori scala, una dimensione sovranazionale in grado di sostenere ed interagire con i flussi globali ed una diffusa capacità di autogoverno responsabile dei territori.

In questa chiave interpretativa il “Terzo Statuto” travalica i confini della nostra specialità ed investe in pieno tanto il confronto sul tema del rilancio del disegno europeo, quanto il percorso della formazione delle cosiddette macroregioni che sin qui tendono ad immaginarsi più come nuove forme statuali che come opportunità relazionali oltre gli Stati.

Ecco perché questo confronto non può rinchiudersi nei nostri confini regionali: ne abbiamo bisogno per ridisegnare l’Europa e ne abbiamo bisogno se vogliamo che le nostre stesse autonomie possano misurarsi su ambiti gestionali nei quali la dimensione qualitativa non è affatto estranea a quella quantitativa. Così da diventare – nel corso del nostro viaggio – un proficuo terreno di dialogo in provincia di Belluno come nell’alto Friuli. Per niente estraneo, per altro, alla stagione referendaria che interesserà il Veneto e la Lombardia (elezioni anticipate permettendo) nel prossimo mese di ottobre in ordine alle loro prerogative di autogoverno.

Dobbiamo per la verità prendere atto che l’avvio del confronto, in Trentino come in Alto Adige – Süd Tirol, ha risentito della crisi della politica (in senso lato) nella fatica ad immaginare scenari nuovi. Così se in Alto Adige – Süd Tirol il dibattito è stato condizionato da un confronto rivolto al passato (il diritto all’autodeterminazione) che risente di un conflitto non ancora diffusamente elaborato e che pesa sul presente/futuro, in Trentino il confronto è sembrato prevalentemente metodologico ed avulso dalla realtà.

Perché del Terzo Statuto ha senso parlarne solo a fronte del maturo superamento della fase precedente, in assenza del quale rischia di essere un azzardo intempestivo e per certi versi anche pericoloso. Non è un caso che voci autorevoli che pure in passato avevano posto l’esigenza di questa nuova fase, a fronte della crisi del progetto europeo e del vento neocentralistico che spira in Italia (ma anche dello sfarinarsi dei tratti salienti dell’anomalia trentina), abbiano per così dire azionato il freno a mano.

Ciò nonostante crediamo sarebbe un errore. Il tema del Terzo Statuto va posto invece proprio come risposta al vento contrario e allo smarrirsi dei luoghi che hanno dato corpo all’autonomia, pur sapendo che il suo approdo richiederà una gestazione di lungo periodo. Un esercizio che sfida la politica nella sua degenerazione pragmatico/emergenziale, per riflettere sull’appannamento dell’autonomia e per immaginare nuovi scenari.