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La Regione Dolomiti, la resistenza delle proprietà collettive

Con la questione del Terzo Statuto abbiamo in buona sostanza introdotto anche la cornice del primo dei nostri itinerari, dal Trentino all’Alto Friuli, attraverso l’Alto Adige/ Südtirol e la provincia di Belluno. Quella di una realtà sovraregionale che ancora non esiste ma che potrebbe iniziare – anche a statuto invariato – ad immaginarsi come tale.

Ciascuna di queste realtà ha buoni motivi per farlo. Chi si rende conto che l’autonomia da sola non basta e che ci sono dimensioni di scala che sono condizioni imprescindibili per fare qualità, chi è stato messo nel limbo da uno scasso istituzionale che ha fatto saltare le Province senza che vi fosse un’alternativa di autogoverno, chi per uscire da vecchi cortocircuiti etnico-nazionalistici, chi ancora perché non ha saputo immaginare l’autonomia come processo dinamico di assunzione di sempre nuove competenze e responsabilità.

Nel difficile rapporto che segna, oggi forse ancora più di ieri, le scelte politico-amministrative fra la montagna e la pianura, una delle forme di resistenza al centralismo sono stati i beni comuni e la loro gestione partecipata attraverso le proprietà collettive, gli usi civici, le regole.

La ricchezza dei territori montani sta nelle loro caratteristiche e nei loro straordinari patrimoni indisponibili (che li dovrebbe proteggere dall’alienazione, anche se non sempre è stato così), risorse che da sole potrebbero garantire favorevoli condizioni di autogoverno. Parlo dell’acqua, degli impianti idroelettrici, dei pascoli e delle attività collegate, del legno, delle risorse minerarie, del sottobosco, della bellezza e unicità dei territori montani, del turismo dolce che ne può venire, dei borghi abbandonati e così via.

Usare il condizionale è d’obbligo perché in realtà il vincolo della proprietà collettiva (ovvero di ciascuno) in passato è stato aggirato in nome del superiore interesse regionale o nazionale. E questo ci parla di normative che non sono date una volta per tutte, che richiedono cioè consapevolezza, conoscenza, lungimiranza, capacità di contrattuale fra poteri, in una parola una nuova classe dirigente capace di riconciliare i territori e la politica. Prendendosi in capo responsabilità oggi delegate.

Terre che, in assenza di reali forme di autogoverno, si spopolano con il conseguente impoverimento. Frustrando le spinte al ritorno che soprattutto fra i giovani laureati prendono corpo nella speranza di mettere a disposizione le loro conoscenze alla comunità di origine cercando ambiti meno precari di quelli offerti nelle aree metropolitane. Portatori di un importante valore aggiunto, rappresentano una sorta di “ultima chiamata” nell’invertire la tendenza all’esodo verso le città.